BESLAN 2004 MEMORIE DEI SOPRAVVISSUTI

Testimonianze dal volume “UN BICCHIERE DI ACQUA FRESCA. CRONACHE DA UNA RUSSIA SOLIDALE E SCONOSCIUTA

Edizioni Aiutateci a Salvare i Bambini ODV www.aasib.org

Ricorda Regina K., mamma di due bambini piccoli

Il 1° settembre tutta la mia famiglia, come tradizione, si stava preparando per la festa del primo giorno di scuola. Inoltre era il compleanno di mia figlia e pensavamo: “Ora ci mettiamo veloci in fila e andiamo a festeggiare”. Ma ciò non avvenne.

Mia figlia arrivo prima di me e quando mi misi in fila con i bambini io avrei voluto salutarla cosi che lei sapesse che ero lì, che non doveva preoccuparsi.

All’improvviso vidi i ragazzi più grandi correre. Credevo stessero combinando una birichinata …

Poi, appena notai i terroristi, capii tutto e il primo pensiero andò a mia figlia. Iniziai

a urlare, a correre senza sapere dove, non vedevo nulla, solo gridavo a squarciagola.

Ci accerchiarono in un attimo. Riuscirono ad allontanarsi solo i più forti, quelli dai riflessi pronti: i ragazzi più grandi per lo più fecero in tempo a scappare.

Spararono, spararono loro dietro. Poi tutto fu chiaro, li avevamo già notati prima:

la nostra attenzione si era soffermata sui furgoni e su quelle persone, ma…

I custodi della scuola erano in tutto due, tra cui una donna. Non so cosa gli sia successo. Pensavo solo a mia figlia. Quando ci arrampicammo sulle finestre (ci costrinsero subito ad entrare nell’edificio della scuola), tenevo in braccio mio figlio

più piccolo. Ci condussero nella palestra, qui mi avvicinai ad uno dei terroristi e gli chiesi: “Avete già ucciso qualcuno?”. Sentivo degli spari ma non sapevo cosa stessero facendo. Lui mi rispose: “Non abbiamo intenzione di uccidere nessuno”. Gli dissi: “Ho una figlia piccola, non la trovo”. E lui guardandomi, rispose: “Tu ora ti metti a cercare tua figlia e io uccido tutti i bambini, non ho niente da perdere”. Tutti furono portati in palestra, cosi trovai mia figlia. Tra di loro comunicavano soprattutto in russo. Solo quando, si vede, si trattava di una conversazione importante parlavano nella loro lingua. Nella sala ne contai dieci, dodici, non di più. Pensai che erano pochi.

In seguito obbligarono uno dei ragazzi più grandi a sfondare il vetro superiore della palestra cosi che potesse entrare più aria, poiché si respirava a stento.

Non soffrivamo tanto la fame, quanto la sete e la mancanza di aria. Avevamo dei foglietti che sventolavamo sopra i nostri bambini. Per le prime ventiquattr’ore ci diedero da bere, anche se subito ci dissero che non l’avrebbero sempre fatto, perché noi, per esprimere la nostra solidarietà con loro, avremmo fatto lo sciopero della fame. Ci davano da bere spruzzando l’acqua sulle nostre teste.

C’erano anche dei boccali cosicché potevano bere non solo i bambini, ma anche gli adulti. L’acqua pero quasi non arrivava alla folla ammassata lontano, lungo le pareti. E inoltre, quanto si beveva? Bevevi, davi indietro la tazza, un attimo e ancora volevi bere. Non ho mai sofferto la sete cosi in vita mia, seppur io non beva molto. La notte aspettavano l’assalto. Dicevano:

“Voi siete in tutto quattrocentocinquanta. Per la Russia non contate nulla, per questo crediamo che ci sarà un attacco. Probabilmente avrà luogo alle tre o alle quattro di mattina”.

Si comportavano tutti allo stesso modo, non sarei in grado di riconoscere nessuno in particolare.

Erano giovani, avevano meno di quarant’anni, anche se uno era veramente giovanissimo e molto violento. L’ultima notte, il giorno prima dell’attacco, erano tutti talmente aggressivi che non davano più acqua, erano esagitati, pensavamo potessero colpirci, seppur fino ad allora nessuno fu picchiato.

… Pretendevano il silenzio. Probabilmente loro stessi non avevano nemmeno contato quante persone c’erano. Presero un ragazzino e gli misero le mani dietro la testa. “Se ora non state zitti, lo uccidiamo! Chi di voi non riesce a calmarsi?!”. Io mi guardavo intorno, chi e che parlava? Nessuno parlava, ma c’era un rumore terribile. I genitori dei bambini dicevano: “Silenzio!”.

Lo si ripeteva cento volte ed era questo il rumore continuo, giorno e notte, non c’era un attimo di tregua. I genitori dei bambini che avrebbero frequentato la prima elementare erano venuti con tutta la famiglia. Alcune di queste famiglie con cinque o sei bambini morirono tutte.

Ecco cosa accadde. Cosi siamo rimasti seduti dal pomeriggio del secondo giorno e per tutta la notte successiva. Dopo quarantott’ore non ci davano più da bere, non ci permettevano di alzarci, la notte distribuirono bottiglie affinché i bambini potessero farci dentro la pipi evitando di alzarsi. Un bambino piccolo vedendo una bottiglia disse: “Mamma, voglio il te”. Pensava fosse te. E lei: “Questo non è the”. Il bambino scoppio a piangere. “Dai allora, provalo. Non è the”. Il bambino fece un sorso.

Dopo di che, visto che avevano smesso di darci l’acqua,  iniziammo a far bere ai nostri bambini l’urina. E cosi fecero tutti. In seguito ci diagnosticarono la clamidia. Ma in quel momento a questo non pensava nessuno.

Mia figlia era fuori di sé. L’ultimo giorno, appena prima dell’esplosione, giunse la voce che i bambini potevano andarsene. Cosi io la mandai nella parte della palestra dove poi ci fu la prima esplosione: da lì quasi nessuno ne usci vivo. Solo Dio mi aiuto. Sin dal principio. Nonostante fossi in ritardo per la cerimonia di apertura dell’anno scolastico riuscii comunque ad arrivare in tempo proprio nel punto dove tutto ebbe inizio. Poi anche se avevo mandato mia figlia nella parte della palestra dove esplose la prima bomba, lei non mi ubbidì e ritorno indietro. Qualche secondo, il tempo di sederci, ancora qualche secondo e ci fu l’esplosione.

Io la coprii quando cadde il soffitto proprio vicino a lei. Poi mi parve che le esplosioni si succedessero una dietro l’altra, rialzai la testa ma non capivo che cosa stesse succedendo. Questo accadde di giorno. Quando ancora la prima notte si aspettavano l’attacco, ci avevano detto: “Se sentite degli spari non alzatevi, non correte da nessuna parte, altrimenti verrete colpiti dalle pallottole vaganti. I vostri vi potrebbero uccidere. Noi abbiamo moltissime munizioni, moltissime armi, ci difenderemo. Crediamo di essere in grado di respingere il primo attacco”. Non avevano alcun dubbio. “Se non riusciremo a respingerlo, all’ultimo momento premeremo il pulsante e faremo saltare in aria tutto”.

Se fossero scoppiate tutte le bombe nessuno sarebbe sopravvissuto; ne avevamo contate diciassette, appese sopra le nostre teste. Ci salvo il fatto che non tutte scoppiarono. Ci furono solo due esplosioni. Si dice che la prima a esplodere fosse quella sopra il canestro da basket. C’erano moltissimi cadaveri. Dopo la prima esplosione il tetto crollo e inizio a prendere fuoco. Ed ecco che proprio quando scoppio l’incendio un terrorista corse da noi e disse: “Chi può, scappi via veloce, perché qui ora tutto inizierà a prendere fuoco e voi sarete bruciati vivi”. Io pensai: rimanere o scappare?

Coprii i bambini con i frammenti di tetto caduti, mi sedetti accanto a loro e pregai tutto il tempo. Per mia fortuna, una volta avevo imparato il “Padre Nostro” e così anche mia figlia. Ripetevo senza sosta questa preghiera. E in un qualche momento ebbi l’impressione che noi, seduti in mezzo a queste macerie, fossimo coperti da una cupola. Sparavano molto intensamente, di qua e di là. Era terribile, non potevo alzare minimamente la testa. Ed era come se io fossi sotto questa cupola con i miei bambini. Poi i terroristi si avvicinarono e io mi alzai e mi misi a camminare per tutta la palestra. Lungo la parete vidi tre strati di cadaveri e da sotto una catasta di gambe apparve qualcuno che mi disse: “Che cosa fate!”. Andammo diritti da lui. Cosa potevo rispondere? Se fosse un uomo o una donna non si capiva, era solo una voce.

Fu allora che alle mie spalle i terroristi gridarono: “Veloci! Veloci! Qui andrà a finire male. Correte via!”. Ci fecero salire al piano superiore, nell’Aula Magna.

La sembrava ci fosse silenzio, gli spari sembravano lontani. Semplicemente ci sedemmo, ci tranquillizzammo e di nuovo i terroristi corsero da noi, gridando: “Questa parte dell’edificio ora andrà a fuoco, veloci, fuggite, nascondetevi, ora i vostri vi uccideranno!”. Cosi corremmo spostandoci da un’altra parte e ci sedemmo nuovamente. Ma anche lì all’improvviso una voce ci ripete: “Uscite”, o qualcosa di simile, non mi ricordo con esattezza. Ricordo che mi alzai di colpo e vidi un soldato, nostro. In quel momento mi sembrava così grande, un vero gigante.

“Fai passare i bambini dalla finestra”, disse. Lui era seduto sul davanzale.

Intorno montagne di cadaveri. Sparavano ancora intensamente, sia i terroristi che i nostri. Io feci passare i bambini, uno, due. Avevo una paura folle perché sparavano a raffica. Poi rividi il soldato accanto a me. Era stato ucciso. Non riuscivo a riconoscerne il volto. Provo molta compassione per coloro ai quali hanno ammazzato i figli. Non so come possano sopportarlo, come riescano a sopravvivere, non lo so. Io oggi giro per Beslan in automobile ma non riesco a passare vicino alla scuola. Solo nel nostro caseggiato sono morti trentaquattro bambini. Noi viviamo vicino alla scuola ma non riesco proprio ad andarci. Saranno già passati quaranta giorni ormai. Come potrò percorrere ancora quella strada? Sono molto grata a Dio che ci abbia aiutato così tanto. Ci ha lasciato in questo mondo per qualche motivo. Il perché non lo so. La era seduta una ragazza.

Non potrò mai perdonarmelo. Era una ragazzina piccola. Io avevo paura persino a muovermi. Lei alzava la testa come un automa. Il terrorista disse: “Uno!”. Silenzio. Poi le sparo. Se ne stava seduta tutta sola. Perché il Signore non mi ha fatto venire l’idea di chiamarla a me? Io non so se lei sia viva o meno e cosa ne sia stato di lei.

La qualcuno latrava come un cane. Non so come un uomo possa farlo, ma latrava veramente. Qualcuno cantava canzoni. Se fossero state persone sotto shock o in fin di vita, non lo so. Mi sovviene ancora la domanda che mi ponevo allora: “Ma perché cantate, perché latrate? Fareste meglio a pregare Dio. Vedete, io che ho pregato sinora sono viva”. Questi erano i miei pensieri, come se ci fosse solo Dio e nient’altro. Mia figlia ha paura di tutto. Quando esce di casa porta sempre con sé dell’acqua. Giorno e notte, beve sempre acqua…

Racconta Lina Saltykova

L’inizio di settembre del 2004 fu terribile. I dettagli della tragedia di Beslan vennero divulgati dalla stampa, ma noi vivemmo la vicenda in prima persona. Parlammo con le vittime che erano state ricoverate presso la nostra clinica. Ricordo gli occhi fissi e inespressivi dei bambini e quelli disperati ed estenuati delle madri.

Erano più di quaranta, dai due ai sedici anni, con genitori o parenti. All’inizio risulto assolutamente impossibile parlare con i bambini, non rispondevano. Si sciolsero col tempo. Vennero a trovarli in moltissimi: artisti, sportivi. Nessuno rifiutava le richieste dei bambini.

Sia i bambini che gli adulti avevano bisogno di diverse cure e tutti quanti necessitavano di un sostegno psicologico. I bambini per lungo tempo ebbero paura di qualsiasi cosa: del rumore di una palla che rimbalzava, di un uomo con la barba, di un gesto improvviso. A poco a poco dai loro racconti emerse un quadro dettagliato del terribile evento.

Racconta il sedicenne Aslan P.

Ero andato a scuola con mio fratello Sosik di otto anni. Avrei dovuto essere al mare in vacanza e rientrare in un secondo momento, ma decisi di tornare a  scuola per l’inizio del nuovo anno scolastico. Avrebbero dovuto venire con noi anche mamma e papa. Volevo mettermi in fila e andare incontro ai ragazzi che conoscevo. Mi avviai, la musica della festa era a tutto volume. Quelli che erano in prima fila non si vedevano, distinsi solo chi era in uniforme militare.

Pensai che fossero soldati dei Corpi speciali o dell’OMON, forse nella scuola c’era una bomba. Ma poi iniziarono a sparare. Vidi un terrorista con la barba. Tutti iniziarono a scappare, cosi anch’io. Ma poi vidi che le classi dei bambini più piccoli correvano verso la scuola, allora li seguii, volevo trovare Sosik. Pensavo che in qualche modo ci saremmo calati dal secondo piano. Ma mio fratello non c’era da nessuna parte. Chiesi alla sua maestra, ma lei piangendo mi rispose: “Non so dove sia”.

In quel momento un terrorista mi dà un calcio sulla spalla: “Zitto, vai nella palestra”.

Ma io riuscii a scansarlo un po’. Andai nella palestra, Sosik non era nemmeno li. Lo chiamai in mezzo alla gente che era davvero tanta. Poi finalmente lo vidi, mi chiamava da un angolo. Era la con le ragazzine della sua classe. Poi ci divisero in due gruppi e iniziarono a posizionare gli esplosivi. Raggrupparono gli studenti più grandi e gli uomini per coprire le finestre con i banchi affinché nessuno potesse penetrare. Anch’io fui reclutato. Un uomo, mio vicino di casa, venne subito ucciso proprio nella palestra. Ci stava tranquillizzando: i bambini piangevano, i genitori urlavano e lui tranquillizzava tutti. Era proprio accanto a me, un terrorista gli si avvicino e lo uccise a sangue freddo. Giaceva pieno di sangue. In seguito lo fecero portare via. La c’erano i suoi due figli, uno era mio coetaneo, l’altro frequentava l’ottava classe e tutto avvenne proprio sotto i loro occhi. Il più grandi mori qui, il più piccolo non si sa…

Poi ci ordinarono di andare alle finestre per controllare i cecchini. Io guardavo, da qualche parte c’era un vetro rotto, da qualche parte ancora una tendina. E dissi: “Non vedo nessuno”. Poi ci obbligarono ad alzare le mani, ci fecero abbassare ed iniziarono a sparare gridando: “Allah Akbar!”57. Sparavano dalle finestre ai blindati. In palestra erano in sei o sette e ce ne erano altrettanti alle finestre. Condussero fuori gli uomini, ce n’erano circa quattordici-quindici. Poi uno si avvicino e ci disse: “Vedete, i vostri blindati sparano a voi”. Poi quando ci portarono nel corridoio dissero: “Non guardate ai lati”. Ma io guardai comunque: lungo le pareti c’erano degli uomini, qualcuno ferito, quattro erano già morti. In una classe un terrorista si era fatto saltare in aria. Poi portarono cinque o sei persone, uno aveva una mano spappolata, un altro era gravemente ferito tanto che appena lo deposero a terra gli diedero il colpo di grazia.

Per la prima mezza giornata ci diedero l’acqua ma poi dissero: “Voi non servite al nostro Presidente, lui se ne frega di voi. Acqua non ve ne daremo”.

Li supplicammo. “L’acqua e avvelenata non la si può bere”. Le persone insistevano: “E allora avvelenateci. Dateci l’acqua”. Ma loro rispondevano: “Non vi serve”.

E questa era la loro scusa, che l’acqua fosse avvelenata. Io sapevo benissimo che non ci avrebbero comunque lasciato andare. Rivendicavano il ritiro delle truppe dalla Cecenia, sarebbero serviti minimo due giorni e si sarebbe dovuto fare in fretta. Pensavo che se ci fosse stato un assalto avrebbero sparato a tutti.

In tal caso avrei coperto mio fratello col mio corpo. Me lo tenni tutto il tempo accanto. La notte qualcuno dormiva, qualcun altro se ne stava seduto.

Il secondo giorno non lo ricordo bene, ma non fu diverso. Non ci diedero acqua, qualcuno aveva già perso i sensi. La seconda notte ci portarono, noi ragazzi più grandi, nella palestra per sprangare le finestre, seppur ci fossero delle inferriate.

Le coprimmo con divani e armadi. Poi portarono gli anziani, facendo credere che forse sarebbero stati liberati. Il terzo giorno qualcuno era già uscito di senno. A causa della fame e della sete avevano le visioni. Alcuni piangevano: “Non voglio morire”. Molti avevano perso conoscenza. Nel corso del secondo giorno arrivo Aušev58 per negoziare. La gente contava almeno nel rilascio degli alunni sino alla quarta classe. Poi iniziarono a dire di rilasciare i genitori con i bambini dalla prima alla quarta elementare. Dissero che alcuni genitori con i loro bambini, venticinque persone, erano già stati liberati.

Il primo giorno dissero che avevano preso centocinquanta ostaggi, il secondo che erano trecentocinquanta ma la c’erano effettivamente milleduecento-milletrecento persone. Alcuni erano scappati, altri si erano nascosti nel locale caldaie. Nella scuola c’era mia zia, cugina di mio padre, con la figlia. Era una maestra. Due ore prima dell’esplosione disse: “Forse se chiedo dell’acqua ce la daranno”. Cosi io mandai mio fratello da lei dicendo: “Se non altro, sdraiati”. Lui ci andò e si sdraio insieme a lei. Dicevano che un terrorista era buono e che dava le caramelle, ma appena gli altri lo videro lo uccisero immediatamente. Lo portarono nel corridoio e poi spari. Io pensai, può darsi che ce ne sia un altro cosi, gli chiederò dell’acqua…

Li vicino c’erano delle ragazze, perdevano i sensi di continuo, cosi io facevo loro riprendere conoscenza schiaffeggiandole sulle guance…

Poi ci fu un’esplosione. Pietre sulla testa, mattoni, volava di tutto. Il sentore fu che si trattasse degli ultimi attimi di vita. Qualcosa di grande mi cadde sulla testa. Dopo la prima esplosione passarono cinque secondi e ce ne fu una seconda.

Riportai solamente una ferita…

Poi quando mi alzai in piedi sentii male ad una gamba. Per questo non riuscii ad aiutare quelli che mi erano vicini. Pensai che la gamba fosse rotta. Non so come riuscii a salire su una finestra. Vidi dei bambini che scappavano ed i terroristi dalle finestre che sparavano loro. I bambini correvano e uno dopo l’altro cadevano.

Sentivo che gli occhi mi si annebbiavano. A un metro da me un bambino correva con la sua mamma, credo fosse piccolo, forse frequentava la prima elementare o forse era ancora più piccolo. Vidi la madre cacciarlo sotto di sé e coprirlo col suo corpo e intanto dalla finestra gli sparavano contro. Una raffica sul terreno. Alzai la testa. Quello che aveva sparato inizio a ricaricare il fucile mitragliatore. Io sulle punte dei piedi mi rifugiai in una sporgenza fra due muri.

Sentii degli spari che colpivano la parete in alto. Sentii i vetri andare in frantumi proprio sopra la mia testa.

Qualcuno fuggi dietro un angolo. Gridai a mio fratello. Vedevo i bambini correre e cadere. Poi riconobbi un soldato dei reparti speciali che dall’angolo delle caldaie imprecava: “Da questa parte!”. Io mi avvicinai strisciando. Mi disse: “Stai giù! Riesci a venire da me?”. E io: “Si”. Mi alzai sulle punte dei piedi, caddi, il soldato mi prese sulle spalle e mi porto via da li. In questo modo riuscimmo a raggiungere alla meno peggio la casa più vicina. La mi diedero dell’acqua. Ero preoccupato per mio fratello. Dov’era? Mi diedero dell’acqua: “Stai zitto, stai zitto”.

Poi mi portarono in una baracca dove mi sedetti. Un soldato mi si avvicino: “Che hai?”. Io dissi: “La gamba”. “Allora levati i pantaloni”. La gamba mi faceva male. Mi tolsi le scarpe. Un calzino era bianco e l’altro rosso. Mi portarono di nuovo sulle spalle. Intorno il fuoco. Una bomba lanciata da un lanciagranate esplose lì vicino e di nuovo fu assordante. Non so come ci trascinammo fino alle macchine e alla scuola numero 6. La c’erano i soldati dei reparti speciali. Mi fecero un’iniezione dicendo: “Stai qui”. Io risposi: “Non posso, c’è mio fratello là” – “Si! Lo hanno tirato fuori, e tutto a posto!”. Io dissi: “Non ditemi bugie!”.

Papa mi vide quando uscii dalla scuola, mi corse incontro ma mi stavano già portando via. Cercava anche lui mio fratello. Portarono un bambino sulla barella senza gambe, senza braccia e lui pensava che fosse Sosik. Ando in ospedale per trovarlo ma gli dissero: “Non è lui”. E papa: “Come no? Dov’è mio figlio?”.

Poi si volto e vide Sosik seduto su una barella. Gli corse incontro e lo abbraccio.

In ospedale mi operarono. Estrassero una scheggia. Avevo tutto il muscolo della gamba squarciato fino all’osso. Quando ripresi conoscenza dopo l’intervento mi dissero che mio fratello era li anche lui e che tutto era a posto.

Ricorda la mamma dell’undicenne Alan K.

Andai a scuola con Alan. Andammo a conoscere la nuova maestra e poi ci mettemmo in fila assieme a tutti gli altri bambini. Sentimmo degli spari, io mi voltai e vidi che i ragazzi delle classi superiori correvano, urlavano, agitavano le braccia. Non capii subito che cosa stesse succedendo. Poi vidi un terrorista in tuta mimetica, con la maschera e il fucile mitragliatore.

Pensavo si trattasse di un nostro soldato dei reparti speciali o dell’FSB. Scappare da qualsiasi parte era impossibile, avevano sbarrato tutto. E inoltre dove sarei andata senza Alan, lui era più avanti. Iniziarono a sparare in aria. Alcuni ragazzi si misero a correre, un terrorista li rincorse ma non li raggiunse. Mi si avvicino con il mitra puntato e mi disse: “Vai più veloce!”. Io rimasi come paralizzata, non riuscii a muovermi. Lo guardavo, lui appoggio il mitra alla spalla e mi disse: “Ora inizierò a sparare”.

Ci spinsero nella palestra della scuola. La c’era un piccolo corridoietto dove i bambini si ammassarono, la porta non si apriva. I bambini urlavano. Un terrorista sparo in aria e loro urlarono ancora più forte. Io gli dissi: “Non spari ai bambini!”.

E lui: “Io non sparo ai bambini! Questo e solo per calmarli!”. Finalmente entrammo nella palestra ed io iniziai a cercare Alan. Riconobbi la mamma di un suo compagno di classe e le chiesi: “Ha visto Alan?”. Lei rispose: “Prima della palestra c’è un piccolo spogliatoio, i bambini si sono nascosti la”. Mi diressi la, trovai i bambini e li condussi fuori. Poi pensai: “Hanno comunque già preso tutta la scuola”. Ci ricacciarono in palestra. In mezzo alla sala c’era un tavolo.

All’inizio Alan se ne stava sotto questo tavolo, vicino ad un altro bambino. Quest’ultimo era con la nonna, ormai anziana. La prima notte dormi sulla sedia, ma poi le risulto difficile. Dovette sdraiarsi e non c’era quasi posto, cosi chiamai Alan e gli dissi di venire da me. Questo ci salvo; dopo l’esplosione, nel punto dove si era rifugiato mio figlio c’erano solo macerie.

Dopo un po’ iniziarono a bloccare le porte. Uccisero un uomo. Aveva detto loro: “Anche voi siete uomini del Caucaso. Lasciate andare donne e bambini.

Prendete noi, fate di noi quello che volete”. Lo uccisero proprio nella palestra.

In seguito, dopo aver bloccato tutto, iniziarono a tirar fuori l’esplosivo e a posizionarlo. Lo misero sopra la porta della palestra. Può essere che lo abbiano preso da sotto il pavimento. All’ospedale chi ci interrogo ci disse che quando aprirono il pavimento trovarono un intero arsenale. Il che significa che era stato tutto preparato prima. Il primo giorno loro si comportavano ancora bene con noi, davano l’acqua a bambini e adulti.

Ma noi praticamente non bevevamo, perché eravamo seduti lontano e l’acqua spesso non arrivava. In seguito inizio ad arrivarci qualche bottiglia di plastica. Il secondo giorno i terroristi erano ormai inferociti. C’era rumore, i bambini non stavano buoni: certo non potevano morire di sete standosene tranquilli! Faceva molto caldo, c’era odore perché i bambini si facevano la pipi addosso… Io svenni e ripresi conoscenza più volte. Avevo bisogno che Alan stesse seduto accanto a me, gli facevo aria con un cartone. Avevo una paura tremenda per il mio bambino, di me non m’importava nulla.

Pregavo solo il Signore affinché risparmiasse mio figlio. All’inizio non dissero quali fossero le loro rivendicazioni. In seguito arrivo la direttrice della scuola e, alzando le mani sconsolata, ci disse: “Vedete, di voi non importa niente a nessuno. Ho appena chiamato il Presidente e tutti quanti, ma nessuno ha alzato la cornetta”. Il Colonnello disse: “Noi non vogliamo uccidervi. Se le nostre richieste verranno esaudite non ammazzeremo nessuno. Ma se nessuno vuole negoziare, noi non abbiamo niente da perdere e se ci sarà un assalto, noi stessi moriremo, ma voi non ve ne andrete da qui, voi non siete importanti per il vostro Presidente. Nessuno verrà a salvarvi”. Parlò in russo. Un altro tento di dire qualcosa per tranquillizzarci: “Non abbiate paura, nessuno vi fara del male, nessuno vi ammazzerà”. Stava iniziando a dire ancora qualcosa ma il Colonnello, sentendolo, urlo in ceceno: “Chiudi quella bocca!”. E quello tacque, non disse una parola di più e se ne andò.

Il terzo giorno persi conoscenza. Soffro di problemi di cuore e inoltre eravamo disidratati. Noi eravamo seduti di fronte agli esplosivi. Nella parte opposta già il primo giorno avevano costretto i ragazzi più grandi a rompere tre file di vetri perché respirare era assolutamente impossibile. I bambini che erano senza  genitori

per lo più giacevano dove c’era l’esplosivo sul pavimento. Cosi come gli adulti.

Ma il terzo giorno già non importava più se si moriva o meno. I bambini stavano sdraiati senza vitalità, erano già morti. Alan il terzo giorno mi disse: “Se non ci liberano, non resisterò”. I bambini chiedevano l’acqua. E uno disse: “Fate la pipì e bevetela”. I bambini iniziarono a fare la pipi. Chi in una scarpa, chi da un’altra parte e bevevano. Anch’io dissi a mio figlio: “Alan, prova, starai meglio”. E lui rispose: “Preferisco morire piuttosto che bere”. In seguito, quando nella palestra arrivò Aušev (io un po’ lo conosco), un terrorista disse: “Avete ospiti”. Era chiaro

che non si aspettava di vedere così tanti bambini: sul suo viso si vide il terrore. Poi, proprio di fronte agli esplosivi, io persi i sensi. Alan era li vicino. Mi disse: “Mamma, non ci lasceranno andare da qui così facilmente”. Tornai in me a causa dell’esplosione. Risuono un rumore sordo. Io non capivo nulla. Poi Alan mi tiro per la mano: “Mamma, mamma!”. Lo guardai, aveva un rivolo di sangue. Pensai, e finita. Una scheggia. Iniziai a fasciarlo con la sua maglietta.

Dopo aver bendato Alan pensai che nella palestra fossero tutti morti. Vedevo chi era ancora in vita alzarsi piano. Il tetto era già crollato. Un’enorme lastra era caduta su delle persone proprio accanto ai miei piedi. Poi dalla porta di fronte a noi sentii qualcuno urlare: “Venite qui, tra poco ci sarà un’altra esplosione!”. Cosi io dissi ad Alan: “Forse dovremmo strisciare in qualche modo”. E lui: “Mamma, sei matta? Quello e un soldato”. Io pensai, e uno dei nostri.

In seguito i nostri gridarono da un’altra parte: “Strisciate verso di noi”. Io gridai: “Ho un bambino qui”. Tra di noi si intrufolo un soldato che ci aiuto ad uscire. Quando ci portarono fuori di lì io ebbi nuovamente un crollo fisico. Mi ripresi in ospedale. La c’era mio fratello, gli domandai: “Alan sta bene?”. Lui rispose: “Si”. Mi estrassero la scheggia che mi aveva colpito nell’esplosione. Il secondo giorno presi un taxi e andai da Alan, era con la nonna.

La maggior parte dei bambini spesso veniva in chiesa. Un bambino piccolo chiese: “Hanno sparato anche a Dio?”. Kristina, che aveva nove anni, accendeva

sempre candele in memoria delle amiche che le avevano ammazzato davanti agli occhi. Sua madre racconto che il giorno prima avevano visto un cartone animato di Barmalej. Quando Barmalej voleva mangiare i bambini, la ragazzina inizio a gridare: “Anche qui mangiano i bambini?”. Non poté guardarlo.

Molti bambini persero i loro cari: madri e nonne li coprirono con il loro corpo e morirono. All’ospedale c’era un papa con la figlioletta; e letteralmente incanutito a causa della tragedia, la moglie mori nella scuola.

La mamma di un bambino di quattro anni salvo alcuni bambini facendoli passare dalla finestra durante le esplosioni. Mori in ospedale a causa di una grave ferita.

E ancora, un bambino piccolo andò con la nonna alla festa del 1° settembre.

La nonna mori facendogli scudo col proprio corpo. Queste storie sono una più terribile dell’altra. Fu tutto cosi crudele che non si può descriverlo a parole. Ma probabilmente la cosa più crudele di tutte fu che molti bambini di nove, dodici anni si trovarono all’interno della scuola occupata senza genitori.

Ricorda Kambolat B. di nove anni

Andai a scuola con il nonno. Arrivato gli dissi: “Nonno, vai a casa”. E lui: “No”. Ma io comunque lo mandai via. Non aveva motivo di rimanere perché c’era una maestra, nostra vicina di casa, che da due anni mi riaccompagnava a casa dopo la scuola. Sua figlia era in classe con me cosi io e lei andavamo sempre a scuola insieme. Andammo in classe, aspettammo la maestra. Non arrivava, non arrivava… Poi scendemmo in cortile e ci mettemmo in fila, ma eravamo fermi.

Un mio compagno di classe battendomi sulla spalla mi disse: “Guarda”. Allora li vidi. Venivano verso di noi, avevano la barba ed i mitra. Erano ancora nel cortile.

Si avvicinarono all’edificio facendo entrare le persone dalle finestre e dalle porte.

Io aspettavo di entrare dalla porta perché non volevo arrampicarmi. Non volevo

che i terroristi mi toccassero. Passai dalla porta, poi mi sedetti. Trovai un mio compagno di classe, era con la madre, una direttrice didattica e mi sedetti insieme a loro. Poi mi addormentai. La sera andai in bagno, tornai e mi sdraiai nel corridoio in mezzo a tante persone. La trovai un altro mio compagno di classe, era con sua madre ed il fratello più piccolo.

Trascorsi quella sera con loro. I terroristi ci portavano da bere periodicamente.

Alcuni portavano le bottiglie d’acqua sotto le ascelle. Io e il mio compagno rubammo una borraccia. Loro nemmeno se ne accorsero. Non mi facevano nessuna paura. Se iniziava a esserci rumore loro sparavano al soffitto. Passai la notte sul pavimento della palestra. Appesero gli esplosivi, non vidi da dove li presero. Si dice che fossero nello scantinato. Le persone erano tutte nella palestra, tutte, eccetto gli uomini. Li avevano portati fuori subito e fatti sedere nei corridoi in due file. Li vidi quando andai in bagno.

Appesero sei cariche di esplosivi. Il terzo giorno mi svegliai presto. Ci dissero che sarebbe iniziato tutto da qualche parte alle due e mezza. Loro stessi non si aspettavano che una bomba sarebbe poi caduta. Ci fu un’esplosione. Stavo seduto con la schiena appoggiata, l’onda d’urto mi fece sbattere contro il muro e sentii che mi stavo alzando da terra. Poi persi i sensi.

Ripresi conoscenza con le macerie che mi coprivano tutto. Cercai di mettere fuori la testa, poi pensai: “A che serve?”. Svenni di nuovo. Stavo li sdraiato senza sentire nulla, nessun dolore. Un uomo, rovistando fra le macerie, mi trovo, mi prese in braccio e mi porto nello spogliatoio. Dicono che quando i nostri soldati entrarono di corsa, dietro di loro correvano due persone: uno stuntman e un karateka. Non so chi di loro mi abbia trovato. Appena vidi l’acqua la volli subito. Mi attaccai al rubinetto e bevevo, bevevo…

Uscii di li, mi sedetti; di fronte a me erano sedute cinque persone mentre una donna era sdraiata. Poi vi fu un’altra esplosione e io venni ricoperto ancora dai calcinacci. Un uomo mi disse: “Vai”. Poi mi prese e mi condusse attraverso la palestra. Al piano superiore tutto era in fiamme. Fui portato in un’altra stanza dove c’erano altre persone. Ruppero una finestra e iniziarono con fatica ad uscire. Venni passato dalla finestra e attraverso il garage uscimmo dove c’era un’ambulanza. In seguito fui portato in ospedale.

Prima nel nostro e poi in quello di Vladikavkaz. Mi spaventai. Cosa mi avrebbero fatto? Mi dissero: “Sdraiati e stai tranquillo”. Vidi i miei genitori la mattina seguente. Nelle notti che passai all’ospedale di Vladikavkaz avevo paura, non riuscivo a prendere sonno. Quando eravamo seduti nella scuola pregavamo affinché i terroristi venissero uccisi presto.

Si narra come sotto i colpi delle mitragliatrici le persone pregassero Dio: “Aiutaci, proteggici, salvaci!”. La montagna di ricordi dell’assedio della scuola e la testimonianza della follia del mondo in cui viviamo. Esiste una struttura terapeutica che offre un supporto psicologico a chi e sopravvissuto alla tragedia. Dopo lo shock, le persone iniziarono a raccontare e a scrivere, avevano bisogno di liberarsi dalle inquietudini. I volontari del Gruppo di Volontariato hanno accolto il loro dolore. Ricordare e difficile, ma non ricordare e impossibile.

A Beslan molti adolescenti hanno dato prova di un coraggio straordinario.

Nel reparto di Chirurgia addominale c’e il sedicenne Murad K. Vedendo la canna di un mitra puntata contro i bambini fece scudo con il proprio corpo a due di loro e poi, già ferito, riuscì, insieme all’insegnante di educazione fisica della scuola, a disarmare un terrorista. In ospedale lo assistette la zia: la madre era morta la primavera precedente, mentre il padre era morto alcuni anni prima. Rifiutano ogni aiuto dicendo: “Abbiamo già tutto”. Murad ha solo chiesto che gli  rocurassimo i libri per la scuola militare dei reparti speciali.

Sogna di diventare uno di loro.

Poco dopo la permanenza dei bambini all’ospedale, in accordo con  l’amministrazione della clinica, il Gruppo di Volontariato avvio un grande progetto. Il coordinatore fu Armen Popov, uno degli amici di lunga data del Gruppo. Chiamo alcune grandi aziende ed associazioni. Durante la permanenza dei bambini osseti nella Clinica RDKB i volontari del Gruppo passarono a visitare tutti per chiedere ai famigliari quali fossero i bisogni impellenti e quotidiani; si informarono di quali capi di abbigliamento e calzature ci fosse bisogno, ma non chiedevano solo la taglia: forse per un bambino era importante il colore o che il vestito fosse alla moda… Chiedevano ai genitori che cosa piaceva fare ai bambini prima, che cosa sognassero, che cosa chiedessero ai genitori da tempo…

Il fatto e che alla domanda “Che cosa vorresti?” molti bambini rispondevano: “Niente”. Dopo la tragedia si trovavano in uno stato di profonda apatia. Era come se per loro il tempo si fosse fermato la nella palestra della scuola di Beslan. Dopo quanto avevano vissuto era come se avessero perso il legame col loro passato e smesso di vedere un futuro. Ricordare i propri sogni, combattere per essi, significava far ripartire l’orologio della vita.

Il progetto ebbe inizio una mattina con l’apparizione nei corridoi della Clinica RDKB del calciatore Dmitrij Aleničev accolto con entusiasmo da tutti i bambini. Ando a far visita al quattordicenne Alan K. che si trovava nel reparto di Traumatologia con una grande ferita al torace ed un grave trauma cranico. La gioia del ragazzo fu immensa. Non sembrava lui: i primi giorni la situazione psicologica in cui versava lo aveva fatto annoverare fra i pazienti più gravi e per molto tempo non riuscì ad avere alcun rapporto umano. Il calciatore regalo ad Alan una vera divisa da calciatore ed un pallone sul quale scrisse parole di conforto. Poi fecero una fotografia insieme. “Regalala ai bambini quando torni a casa”, disse Dmitrij, abbracciando premurosamente Alan che era completamente bendato.

Il progetto si estese in tutti i reparti dove si trovavano i bambini dell’Ossezia.

All’inizio venne anche Karlsson, il vero Karlsson dello spettacolo del Teatro della Satira di Mosca, il Karlsson che insegnava a tutti a non ascoltare, a fare birichinate e a mangiare la marmellata direttamente dal vasetto. Poi i bambini ricevettero proprio quei regali che desideravano più di ogni altra cosa. Il sogno più grande di qualcuno era una bambola Baby Born di cui bisognava occuparsi come di un neonato vero, altri volevano Barbie con la sua casetta, altri una radio telecomandata o un lettore CD oppure i pattini a rotelle. I bambini non avevano chiesto i regali e non se li aspettavano. I bambini o i loro genitori avevano semplicemente raccontato i loro sogni e i loro desideri che coltivavano da tempo…

Ed ecco che ora ogni bambino stringeva tra le mani proprio quello che un tempo aveva tanto desiderato. Tre dei ragazzi più grandi avevano ricevuto in regalo un computer; tra di loro c’era anche Murad K. La storia di questo coraggioso ragazzo orfano non lascio indifferente nessuno. Un benefattore (ci ha chiesto di non rivelare il suo nome) non solo regalo a Murad un computer portatile, ma continuo a sostenerlo anche successivamente, provvedendo alla sua istruzione. Nella stanza di Georgij F., di dieci anni, apparve una velocissima mountain bike. La sua gamba, rotta a causa delle schegge, era ingessata dal piede fino all’anca, ma sarebbe certo guarita. Questa era una preoccupazione dei medici. Ma la bicicletta avrebbe incoraggiato Georgij a guarire. Alja, di dodici anni, gravemente ferita, sognava degli stivaletti bianchi; aprendo la scatola con dentro un paio di stivaletti di soffice pelle bianca con il tacchetto, i suoi occhi rimasero increduli: “Sono per me? Davvero?”. Quel giorno lo percepirono tutti: i bambini erano tornati ad essere semplicemente bambini che per la prima volta, dopo tanto tempo, erano felici veramente. I collaboratori della Commissione per la Beneficenza del Patriarcato di Mosca portarono televisori e videoregistratori, che ancor oggi si trovano in ogni stanza della clinica dove un tempo erano ricoverati i bambini di Beslan. Venne un prestigiatore che sì esibì in ogni reparto. E certo, i bambini ricevettero la visita ancora di Luca Lukič. I volontari del Gruppo di Volontariato Padre Aleksandr Men’, come al solito, disegnavano con i bambini e tenevano lezioni di informatica. Una ragazza con la mano destra ferita imparo a disegnare e ad usare il computer con la sinistra. Presto molti bambini iniziarono a cantare canzoni con il sintetizzatore insieme a Volodja Šiškarev.

La condizione psicologica dei bambini gradualmente andò migliorando. Il Gruppo di Volontariato predispose per i bambini in via di guarigione il soggiorno in Italia per favorirne la riabilitazione. Ad organizzare l’iniziativa fu l’Associazione italiana “Aiutateci A Salvare I Bambini Onlus”, presieduta da Ennio Bordato, vecchio amico del Gruppo64. Per la prima volta il Gruppo di Volontariato preparo i documenti per l’espatrio per un gruppo cosi numeroso: si trattava di trentanove persone65. Aiutarono tutti, dal Consolato italiano a Mosca, ai dipendenti dell’aeroporto Šeremet’evo II. L’aeroporto non fu in grado di garantirci il bel tempo, ma si organizzo dando da mangiare e accudendo i bambini poiché il viaggio fu ritardato a causa delle pessime condizioni atmosferiche.

L’Italia accolse amichevolmente e con gioia le persone di Beslan. Ebbero l’occasione di visitare molte grandi citta, di fare passeggiate e ammirare le bellezze del paesaggio. In Piazza San Pietro dopo la messa, Papa Giovanni Paolo II si rivolse a loro in russo pronunciando parole di conforto.

Una delle madri di Beslan scrisse al Gruppo di Volontariato Padre Aleksandr Men’: ”Ci sentiamo molto fortunati ad essere circondati da persone tanto buone, sono comparsi un sacco di amici. Penso che a Beslan non sarebbe stato lo stesso, poiché la nostra e una piccola cittadina, mentre qui ci sono moltissime persone che ci confortano. Ogni dieci abitanti a Beslan ne e morto uno. E una piccola cittadina, Beslan. Per noi che siamo sopravvissuti e come essere all’inferno”.

Racconta Marina K.

Il mio bambino ed io siamo stati un mese e mezzo in Italia per la riabilitazione. Gleb soffriva molto, aveva riportato dei gravi traumi. In Italia ha ricevuto tutto quello di cui aveva bisogno: la riabilitazione psicologica e le cure. Io mi sono tranquillizzata un po’, ci siamo allontanati da quell’oscurità negativa che c’è oggi a Beslan. Quando siamo tornati e siamo scesi dal treno a Beslan, su di noi e calata nuovamente questa oscurità, cosi che noi sentiamo ancora più intensamente quanto siamo stati bene in Italia.

È stato semplicemente straordinario. Ciò che ci ha colpito di più e stata la bontà, i sorrisi, la sensibilità di tutti coloro che abbiamo incontrato e che ci hanno accolto, di coloro che sono sempre stati con noi. Sono state organizzate gite e viaggi. L’Italia da nord a sud si estende, per quanto io sappia, per milletrecento chilometri. Noi ne abbiamo percorsi mille. Le citta che mi hanno più colpito sono state Roma, Venezia e Verona.

C’è stato anche un incontro straordinario con il cantante Albano. Per riuscire ad incontrare per mezz’ora i bambini di Beslan, ha preso l’aereo e ci ha raggiunti per fare un concerto privato. È stato meraviglioso come si è rapportato con i nostri bambini. Un enorme grazie a Ennio Bordato che ha organizzato il nostro viaggio e la nostra accoglienza in Italia. Per qualsiasi questione potevamo  rivolgerci a lui. Uno degli scopi di questo viaggio era far visitare mio figlio da un dottore ed Ennio lo ha reso possibile. Naturalmente sono grata anche a tutti quelli che ci hanno sostenuto qui a Mosca nel periodo in cui eravamo in cura ed a quelli che hanno reso possibile questo meraviglioso viaggio in Italia.

Il dolore, la sofferenza, i crimini vissuti a Beslan furono immensi. Eppure e straordinario quanto sostegno, quanta compassione e quanta partecipazione si manifestarono in quei giorni.

Si rivelarono molte brave persone. Di gran lunga molte di più di quante se ne possano immaginare.